Nella zona ovest di piazza Aurelio Saffi, in un’area chiamata Rialto, c’è un bellissimo palazzo la cui storia parla di una Forlì complessa e colta. E’ il palazzo del Podestà, costruito dallo zio di Melozzo degli Ambrogi nella seconda metà del Quattrocento e restaurato nella prima metà del Novecento. L’operazione di recupero fu realizzata con grande intuito da Corrado Capezzuoli, soprintendente della Romagna. Nell’intervento il Capezzuoli impreziosì la splendida facciata con un falso storico che la rese ancora più interessante: si tratta di un terrazzino che fu applicato in luogo di un’antica berlina di cui si era persa ogni memoria. Quel terrazzino è come un finto neo che, applicato al viso di una donna, lo rende ancora più affascinante. Solo i più intimi sanno che si tratta di un falso.
Prima della realizzazione dell’edificio in quella stessa posizione sorgeva il vecchio palazzo del podestà. Era fatiscente, pericoloso e ospitava topi e scorpioni. Le operazioni di giustizia erano praticamente impossibili e le sue stanze non erano più in grado di accogliere degnamente il rappresentante della Legge. Un certo Nane da Vigano, podestà di rango, rifiutò addirittura di abitarle e se partì da quello palazzo per fuggire el perigolo. Fu in quel vecchio edificio istituzionale che il cardinale Domenico Capranica nel 1426 fece collocare la berlina destinata ai condannati: sovra la lozza del palazzo. Quella gabbia fu usata per la prima volta nel gennaio del 1427 per esporre al pubblico ludibrio un tale che per tre giorni dovette sopportare gli insulti e il maltempo.
La realizzazione del nuovo edificio risale al 1458. Scoviamo il racconto del suo rocambolesco innalzamento nella la Cronica di Giovanni di Mastro Pedrino depintore. Dal 1411 al 1464. Della costruzione fu incaricato M° Lorenzo De Roxis, domenicano, capomastro di Forlì che cominciò a scavare le fondazioni dal lato del palazzo comunale. Il lavoro iniziato il 24 marzo 1458 si concluse il 16 marzo 1459. Ma la grande soddisfazione per la preziosa realizzazione fu veramente breve: di lì a poco, infatti, il palazzo crollò, E fò per difetto de le colonne e chapitelle che furono realizzate con mattoni difettosi. Prede cotte marce.
Per non rischiare che l’inconveniente si ripetesse l’incarico per la ricostruzione fu affidato nientemeno che allo zio di Melozzo da Forlì: l’architetto Matteo di Recevudo. Nell’ottobre del 1460 la costruzione fu completata e il risultato fu, ed è, veramente sorprendente. Ben poco della facciata è simmetrico. Gli archi a sesto acuto hanno dimensioni diverse e nulla è in asse con la loro chiave. Le finestre non sono equidistanti. Al primo piano si aprono le monofore mentre al secondo sono presenti false bifore disegnate da un arco sospeso che ricorda il loggiato della casa del Palmezzano di corso Garibaldi. E’ interessante come il disegno di quelle bifore possa rievocare nuovamente il nome di Melozzo di cui il grande pittore forlivese Marco Palmezzano fu collaboratore a Forlì. La facciata del palazzo del podestà, per ciò che ha restituito il restauro novecentesco, ci regala uno stupendo equilibrato disordine. Geniale. Ma Giovanni di Mastro Pedrino, il nostro cronista di riferimento, non ci racconta dove fosse posizionata la struttura che reggeva la nuova gabbia…
Nei secoli successivi il palazzo fu sottoposto a importanti interventi che resero illeggibili gli interni e alterarono la facciata. Le monofore del primo piano presero la forma rettangolare e furono spostate in asse con gli archi, mentre le bifore sovrastati furono parzialmente tamponate. Nel 1532 l’edificio perse anche la destinazione originaria ospitando scuole, uffici, appartamenti, negozi. Divenne poi di proprietà della Cassa dei Risparmi di Forlì che ne fece l’importante sede di piazza Saffi.
Fortunatamente il Novecento ci ha regalato un percorso di restauro che nel 1942 restituì all’edificio l’antico/attuale aspetto. Non mancarono le critiche. Una di queste accese una disputa tra la Soprintendenza e il Municipio attorno all’ipotetica esistenza di un’antica merlatura a coronamento del tetto e a un possibile rifacimento. La questione nacque causa un’opera del pittore Baldassarre Carrari, l’Incoronazione della Vergine e Santi del 1512. Su quella tavola il maestro forlivese dipinse, tra l’altro, un San Mercuriale nell’atto di reggere la città di Forlì stretta tra le sue mura. Uno dei palazzi che emergono ha la sommità merlata e le bifore al primo piano. Potrebbe far pensare al palazzo del podestà. Ma alle sue spalle si innalza la torre civica e poco distante, nella convulsa prospettiva, emerge il campanile della Cattedrale, mentre alla sua destra mostra la facciata San Mercuriale. Insomma, si stratta del palazzo comunale che, come racconta indirettamente il Novacula (Andrea Bernardi) sulle Cronache forlivesi dal 1476 al 1517, aveva proprio le bifore. Ad una di quelle fu infatti impiccato un certo Marco Scozzacane che partecipò all’assassinio di Girolamo Riario signore di Forlì, marito di Caterina Sforza e nipote di papa Sisto IV. Alla fine si scelse di non ricreare la corona di merli.
Gli studi effettuati sulla facciata in cotto tra il 1926 e il 1940 regalarono numerosi indizi. Tracce chiarissime riportarono le monofore del primo piano al loro posto, le bifore sovrastanti furono liberate dalle schermature e fu ricreato il marcapiano. Ma c’era un’impronta anomala che faceva pensare. Non era una finestra perchè si trovava all’altezza del pavimento e portava i segni di due “innesti” nel muro. Era la tamponatura del vecchio vano da cui veniva esposta la ringhiera che conteneva il condannato. E Corrado Capezzuoli, nei lavori di restauro degli anni Quaranta, ebbe l’idea di rendere la facciata ancora più intrigante con l’invenzione del terrazzino.
C’è solo un dubbio: l’altezza eccessiva rispetto la strada. Era veramente quello il luogo della berlina? A confermare l’anomalia ci pensa ancora il Novacula, cronista coevo, il quale racconta che la ringhiera era così in alto che dalla piazza alcune persone non riuscirono a comprendere le parole dette da un condannato. Ci piace pensare che quell’altezza sia stata un’idea dell’architetto per evitare che le persone già sottoposte ad una pratica infamante potessero essere ulteriormente oltraggiate. E’ un pensiero forse troppo moderno per il periodo. Ma non dimentichiamo che il grande progettista faceva parte di una famiglia di illuminati da cui emerse Melozzo da Forlì. Matteo de Recevudo fu comunque un artista geniale. Il grande elegante disordine che riuscì a disegnare sulla facciata del palazzo del podestà di Forlì nel 1460 ne è la testimonianza.
Per saperne di più:
Marino Mambelli. Dietro la Facciata, Forlì Raccontata dei suoi Palazzi. Edizioni Graficamente. Forlì, 2016. Per il Collegio Provinciale Geometri e Geometri Laureati di Forlì – Cesena in occasione del settantesimo anniversario.
Marina Foschi, Luciana Prati, a cura di. Melozzo da Forlì. La città e il suo tempo. Leonardo Arte, 1994.
Maria Cristina Gori e Giorgano Viroli. Palazzi di Forlì. Nuova alfa Editoriale per Cassa dei Risparmi di Forlì, 1995.